ANITA SIEFF
Se capita che l’ascensore sia rotto, arrivare all’appartamento di Anita all’ultimo piano di Palazzo Talenti nel Sestiere di Santa Croce, bisogna guadagnarselo ma sicuramente ne vale la pena. La casa di Anita è un mix di antico e contemporaneo, oggetti antichi e opere d’arte moderna che denotano un gusto non comune per gli accostamenti. Entrando nell’ampio soggiorno quel che colpisce è il grande tavolo segno di ospitalità, l’essenziale cucina che poggia su un bancone perpendicolare al tavolo e che affaccia su una fila di finestre, era sera quando siamo entrate in questa casa, ma si intuisce che di giorno dev’essere inondata di luce. Anita, da poco rientrata a casa, era sulla soglia e ci ha accolto con molta spontaneità, come amiche di vecchia data. Ci ha fatte accomodare su due poltrone a lato di un ampio imbottito su cui poi è venuta a sedersi; ha riposto gli acquisti fatti al mercato, il tutto con una naturalezza che ci ha fatto sentire non come ospiti, ma come persone “di casa”. E tra un dattero e un bicchiere di Malvasia le parole…
A partire dal 1985, dopo la laurea in lingua e letteratura tedesca all’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una tesi sull’estetica contemporanea, Anita Sieff si è dedicata alle arti visive usando suono, fotografia, film, video, scultura, disegno e scrittura per ispirare le proprie performance. Ha esposto al Philadelphia Museum of Art, alla Fondazione Querini Stampalia, ai Musei Civici Veneziani e al Momma di Mosca.
DIECI DOMANDE
Tra i suoli lavori di arte pubblica, Public tenuto dal 1996 al 2001 al Museo Guggenheim e poi al Museo Fortuny, ha riscosso un grande consenso. Ci racconta come è nato il progetto? Public nasce dall’idea del dialogo come metodologia per andare oltre la separazione “osservato-osservatore” e produrre comunicazione come evento, come esperienza di condivisione. Il progetto consisteva in incontri, per i primi tre anni settimanali e poi bisettimanali: ogni mercoledì si ritrovano persone provenienti dai più diversi orizzonti della conoscenza e li invitavo a rappresentare sé stessi attraverso lo scambio e la condivisione. Non si trattava di dibattiti o conferenze su temi prestabiliti ma di vere e proprie performances, esperimenti sulle modalità di sviluppo del pensiero creativo.
Anita, lei ha vinto con il “Simposio sull’amore 2019”, la quinta edizione dell’Italian Council, il programma del Ministero per i beni culturali a sostegno dell’arte contemporanea. Qual era lo scopo? Realizzare una performance per incoraggiare una cultura dell’inclusione prendendo spunto dalle riflessioni sull’Amore. L’opera si presentava come una reinterpretazione del Simposio di Platone: avevo invitato sei filosofi contemporanei a conversare sulla natura di Eros nella cornice di un sito archeologico, evocando la formalità del Simposio greco, con i suoi riti e le sue pratiche.
Il terreno della sua indagine spesso verte sul tema dell’amore. Cos’ è per lei l’amore? Un sentimento da scoprire, una motivazione ad agire e, nella sua implicazione più profonda, l’impegno dell’essere umano ad evolversi in termini di coscienza. È il coraggio di andare oltre sé stessi per incontrare l’altro. Un gesto questo che crea la relazione. Le relazioni amorevoli tra gli esseri umani hanno costruito il linguaggio e contribuito alla crescita di una cultura di consuetudini sociali basate sull’inclusione. Anche se oggi siamo indotti a distanziarci per prevenire il contagio, non dobbiamo sentirci minacciati dalla relazione con gli altri esseri umani, sarebbe disumano. Secondo me l’artista contemporaneo deve essere vigile e pervasivo, ma capace di lasciare tracce nel cuore delle persone affinché possa fiorire la speranza. L’amore per me è, per la sua natura organica, la matrice di tutto ciò che non è manipolato, ed è sempre una protezione sia a livello biologico, che elettromagnetico e psichico.
Pensa che l’arte stia in qualche modo risentendo del momento che stiamo attraversando? Certamente e aldilà dello stato pandemico, penso che molti progetti realizzati in passato oggi siano di più difficile realizzazione a causa della globalizzazione, dei condizionamenti indotti dai mass media che provocano la perdita dei valori legati al senso di comunità e alle relazioni interpersonali. Anni di solitudine interiore, schiacciati da un eccesso di informazione a scapito di vera comunicazione, non lasciano il tempo di elaborare il senso dell’esistenza. In questo senso, a Venezia, si riesce a mantenere ancora una freschezza che consente di esplorare temi che stimolano la ricerca e la riflessione.
Per lei che cos’è un’opera d’arte? Per me l’arte è vita: non c’è differenza tra quello che sono e quello che faccio. Mi piace la processualità, scoprire come si sviluppano gli eventi, con quali concatenazioni e implicazioni. Ho un approccio che potrei definire olistico perché corrisponde ad una mia profonda esigenza di unire la logica della mente con il sentire delle percezioni più profonde, l’intuizione con l’inaspettato di ciò che proviene dall’ambiente che mi circonda, il mio corpo con le risposte prodotte dalle relazioni sociali. Tutto sta nell’abilità di disporre e mettere in pratica la giusta formula alchemica.
Per lunghi periodi, lei si è divisa tra Venezia e New York. Cos’hanno in comune queste due città? Penso che abbiano molto in comune a partire dal fatto che la loro cultura sedimentata nel tempo è diventata simile al contesto naturale. Venezia è costruita orizzontalmente e NY verticalmente, entrambe poggiano sull’acqua e entrambe riflettono il radicalismo dei sentimenti.
Fra i suoi lavori più recenti quale le ha dato più soddisfazione e attualmente a quale progetto sta lavorando? Inaspettatamente ho provato una grande soddisfazione tenendo un seminario sul teatro come scultura sociale. È un vero peccato che il teatro sia spesso separato dall’arte contemporanea e viceversa, perché le pratiche sono estremamente vicine in termini di dimensione partecipativa. Attualmente sto lavorando con degli esperti allo sviluppo di un’app che, utilizzando una piattaforma digitale, favorisca un turismo solidale e sostenibile. Inoltre sono appassionata di astrologia e mi sto entusiasmando a scoprire il territorio della psiche così vicina alle dinamiche della fisica quantica. Quel che mi interessa è sempre il discorso della partecipazione.
Che cosa è rimasto in lei della bambina Anita? I climi freddi isolano e lasciano spazio alla riflessione, all’introspezione ed è così che si arriva ad accettare i miti, i simboli e anche la “religione barocca” caratteristica delle mie valli, che pure ha in sé la poesia. E tutto questo è dentro di me e forse mi ha portato ad essere la persona che sono.
Un viaggio che le ha cambiato la vita? Premetto che pur avendo sempre sofferto ad andare in aereo, ho viaggiato molto. Nell’82 il primo importante viaggio importante transoceanico, direzione NYC. Atterrare a New York di notte, vedere quelle immagini e vivere la città mi ha segnata profondamente. Poco dopo mi sono trasferita lì e ci ho vissuto per più di dieci anni. Ho girato poi in lungo e largo gli Usa, il Messico, l’Argentina, ecco quello in Argentina, per ragioni opposte, è un viaggio che mi ha cambiata. Il viaggio per me è conoscere le città andando dove va la gente: nei bar, nelle discoteche, dove si fa musica live. Sono stata anche un breve periodo a Berlino, ma mi ha inquietata, lì sentivo l’ombra dei tanti morti.
E come di consuetudine, la domanda finale. Cosa non manca mai nella sua valigia? Aurasoma, Rescue Remedy del Dr.Bach, una penna a luce fotonica per attivare i punti di agopuntura, un antivirale a largo spettro a base omeopatica e naturalmente la mia Minox, ancora con pellicola in B/N.